sabato 6 dicembre 2014

GENOCIDIO



E' difficile parlare di qualcosa che ti lascia senza parole.
Arrivi sul posto, e subito ti accorgi di essere in un ambiente particolare. Il padrone della scena è il silenzio, i volti seri, concentrati delle persone che ti passano a fianco con le cuffie, per sentire storie che le tue orecchie e il tuo cuore non vorrebbero mai sentire. Niente schiamazzi, solo il rumore di qualche uccellino e una manciata di galline che vagano tra l'erba. Niente urla, oggi, ma una volta ce ne sono state, troppe.
E pensare che questo luogo, Choeung Ek, in cui morirono decine, centinaia, migliaia di persone, è soltanto uno dei trecento luoghi qui in Cambogia in cui l'uomo ha toccato il punto più basso a cui può arrivare.




Il 17 aprile 1975 i Khmer rossi, giunti al potere guidati da Pol Pot, nel giro di qualche giorno fecero evacuare la popolazione dalle città, i famigliari vennero costretti a dividersi, fecero abolire le scuole, gli ospedali, la moneta... la gente venne messa a lavorare nei campi a condizioni e orari insopportabili. Nel giro di qualche anno morirono in più di 2 milioni, quasi un terzo della popolazione cambogiana.
Senza vergogna: uomini, donne e bambini, uccisi come animali da loro stessi connazionali; uccisi a bastonate, con agenti chimici, sgozzati con qualsiasi attrezzo capitava a mano e gettati in fosse comuni. Bisognava risparmiare munizioni, troppe costose.
Prima di arrivare qui, spesso si passava dalle prigioni di Tuol Sleng, in origine una scuola, trasformata in qualcosa di orribile: vi vennero torturate 17000 persone, costrette ad ammettere stremati loro malgrado crimini mai commessi, “crimini” a volte banali, questo cartello mostra le regole della sicurezza.




Vi sono ancora i frammenti di ossa, a Choeung Ek, mentre cammini per i sentieri tra quelle che erano le fosse comuni, brandelli di vestiti delle vittime escono dal terreno, pensi alle prime persone giunte qui dopo la caduta del regime, a cosa possono aver provato, davanti a loro varie fosse, tra cui una con 450 cadaveri e una con 166 vittime decapitate. Nella natura che ti circonda, nel laghetto in cui vi sono ancora molti resti di persone sul fondo, nell'aria, la morte la senti intorno a te.
Forse la cosa, se possibile, più atroce in questo campo di vite sprecate è un albero, contro cui i neonati, afferrati per un piede, venivano gettati e massacrati, e ti soffermi a chiederti come possa la follia umana arrivare a tanto.





Questa è storia recente di un paese lontano che non conosciamo, ammetto che persino io fino a ieri non ne sapevo granché, ma anche l'occidente chiudendo gli occhi ha le sue colpe, e non solo: con la caduta del regime ad opera di soldati cambogiani e vietnamiti l'Onu condannò l'aggressione e riconobbe ancora per molti anni come governo legittimo quello di Pol Pot conservandone il seggio all'Onu, il quale riconoscerà solo negli anni novanta che ci fu stato un genocidio in Cambogia. Tutto questo tra finanziamenti di Cina e Stati Uniti ai Khmer rossi.
Viene da chiedersi se al mondo esiste ancora giustizia, se i “buoni”, che noi cechi solitamente pensiamo siano gli eroi dei film statunitensi, esistano ancora e siano mai esistiti, o invece siano gli interessi che la fanno da padrone, allora prima di dar per certo qualcosa, sarebbe bene vedere coi propri occhi la verità. Forse nell'epoca moderna conta di più essere di destra o di sinistra, piuttosto che umani. Ma una speranza di giustizia c'è sempre.


Pol Pot morì nel 1998 all'età di 73 anni, dopo soltanto un anno di arresti domiciliari.

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